Studio Arcobaleno

“LE POTENZIALITA’ NASCOSTE DEI BAMBINI” di M. Di Renzo

Mi è stato chiesto di parlare delle potenzialità nascoste dei bambini e quindi la prima domanda che si è affacciata alla mia mente è stata: nascoste a chi? Ai genitori, talmente preoccupati di scorgere limiti o carenze nel proprio figlio da non riuscire a visualizzarne le potenzialità? Agli operatori, che presi dal compito di definire e classificare il disagio del bambino potrebbero trascurare le aree di adeguato funzionamento? Alle concettualizzazioni sull’infanzia così tese a definire standard di sviluppo da dimenticare a volte la centralità della dimensione individuale in ogni processo di crescita? Oppure nascoste al bambino stesso che, proteso a soddisfare le aspettative degli adulti e impegnato a difendersi da richieste inadeguate, potrebbe rinunciare a tal punto alla propria originalità da diventarne inconsapevole? Ma poi il nascosto evoca solo gli aspetti positivi stimolati dal termine potenzialità o può riferirsi anche a elementi negativi responsabili di atti distruttivi che rischiano di diventare tanto più pericolosi quanto più vengono disconosciuti o negati?

Il problema si presenta di una certa complessità perché chiama in gioco aree psichiche diverse, coinvolge molti contesti e diverse professionalità ed è strettamente connesso ai valori collettivi.

Per tentare alcune riflessioni mi rifarò alla fantasia sull’infanzia che anima il nostro immaginario collettivo, fantasia che Hillman ha definito fantasia di crescita per sottolineare il fatto che lo sviluppo è sempre più concepito in termini di progressione lineare. «Il corso della tua vita è stato descritto al futuro anteriore», dice l’autore (J. Hillman, Il codice dell’anima, Milano, Adelphi, 1997), volendo sottolineare il fatto che gli schemi evolutivi rischiano di descrivere i luoghi in cui il bambino si avventurerà prima ancora che lui possa raggiungerli e di rinchiudere in statistiche attuariali la grande varietà di comportamenti che definiscono un’esperienza umana.

14-Sorgente-di-vita

Negli ultimi decenni abbiamo effettivamente assistito al proliferare di teorie sull’infanzia e alla diffusione di progetti e metodi educativi predisposti per ogni possibile evenienza. Il riconoscimento della specificità dell’età evolutiva ha effettivamente prodotto un notevole cambiamento nel modo di approcciarsi all’educazione in senso lato e alla tutela del minore in modo particolare. Dalla visione adultocentrica che vedeva il bambino come «non ancora pronto per» e l’adulto in posizione di controllo come elargitore del sapere, si è infatti passati gradualmente a una dimensione più paritetica grazie alla quale vengono riconosciute al bambino capacità e autonomie prima inimmaginabili. In questo senso possiamo dire che il mondo infantile si è disvelato agli occhi degli adulti mostrando scenari che hanno sempre più ridotto le zone inesplorate e che hanno reso possibile una conoscenza a misura di bambino. Come sottolinea Hillman sappiamo già cosa ci attenderà e abbiamo un’idea chiara di tutto ciò che si dovrebbe evitare e di tutto quello che invece sarebbe opportuno fare. E allora perché aumenta la richiesta di aiuto a favore dei bambini e perché dall’altra parte aumentano gli abusi perpetrati ai danni dei bambini? Credo che a questo riguardo sarebbe opportuna una riflessione a livello collettivo per ridimensionare valori che hanno assunto un’assoluta priorità rispetto ad altri.

Per rimanere nel nostro ambito voglio però sottolineare il fatto che spesso siamo portati a sovrapporre i modelli e le teorie sull’infanzia al bambino reale, al punto da escludere dalle nostre valutazioni e dai nostri progetti qualsiasi scarto individuale. Come responsabile di un servizio di psicoterapia dell’età evolutiva ho la possibilità di verificare quotidianamente il tipo di richiesta di aiuto che viene presentato dal genitore per il proprio bambino. La preoccupazione di non saper corrispondere agli standard educativi e di far crescere un bambino non adeguato alle richieste sempre più pressanti che arrivano dal collettivo spinge spesso il genitore a rinunciare alla propria intuitività e al proprio buon senso e a delegare ad altri la risoluzione del problema. Il mito di un genitore sempre all’altezza della situazione e di un bambino sempre corrisposto sta mietendo un’infinità di ombre e tutto ciò che si discosta da un’ipotetica media diventa patologia. Il bambino inappetente è un possibile anoressico, il bambino che non impara immediatamente a leggere è definito dislessico, il bambino che passa molto tempo a disegnare o leggere

da solo è diagnosticato asociale, la melanconia si chiama ormai solo depressione e l’eccesso di vitalità può facilmente essere qualificato come maniacalità o comportamento iperattivo. E d’altra parte i bambini mostrano comportamenti sempre più infantili, che testimoniano un rifiuto di crescere e un bisogno di dipendenza esasperato. Bambini sempre più adultizzati sul piano delle prestazioni intellettuali e sempre più infantilizzati per ciò che concerne la crescita emotiva.

Mi domando allora: questo eccesso di chiarezza cosa nasconde? Cosa non riusciamo a vedere quando un bambino cerca di corrispondere ai nostri ideali e cosa non riusciamo a immaginare quando una catastrofe sembra aver distrutto una vita per sempre? Se non siamo pervasi da un eccessivo ottimismo siamo necessariamente condannati a immaginare solo rovine o possiamo ipotizzare percorsi diversi, che sappiano ancora ridare dignità a una vita vissuta diversamente e a un’infanzia andata in pezzi per le violenze perpetrate ai suoi danni?

 

POTENZIALITÀ NASCOSTE AI GENITORI

Dal mio osservatorio le capacità nascoste ai genitori sono le risorse del bambino che mal si adattano allo stile di vita del genitore o che attivano in lui sentimenti difficili da contenere. È importante ricordare che la richiesta di aiuto per un bambino viene sempre avanzata dagli adulti di riferimento, che possono leggere come disagio o patologia atteggiamenti non desiderabili. Le aspettative disattese dei genitori possono cioè trasformarsi in una richiesta di aiuto per un bambino che non corrisponde all’immagine interna nutrita intensamente fin dall’inizio della vita. Bambini spesso troppo simili a uno dei genitori che attivano quindi in lui l’ansia di non poter far fronte agli avvenimenti o ai sentimenti che sono stati per lui stesso fonte di dolore o preoccupazione (proiezioni del bambino interno sul bambino reale) o bambini troppo dissimili che costringono il genitore a fare i conti con situazioni sempre

evitate per paura o insicurezza (impossibilità di sentirsi genitore di un figlio proiettato nella sua vita). Capacità quindi che non possono emergere, pena la messa in discussione di principi e valori. Bambini costretti a diventare degli intellettuali quando il loro patrimonio li porterebbe a emergere in altri ambiti o spinti all’efficienza quando il pensiero e l’immaginazione costituiscono le loro risorse principali.

Daniele, ragazzo di 12 anni presentato come iperattivo con problemi di condotta, vive in un ambiente socioculturale

medio basso ma nel corso della terapia mostra interessi culturali sorprendenti. Curiosità per un lessico a lui sconosciuto di cui desidera appropriarsi, interesse per un nuovo modo di riflettere e intendere la vita, attenzione e sensibilità per il modo di essere degli altri e una nuova forma di rispetto per adulti che si pongono veramente come interlocutori e non come depositari del sapere universale sull’adolescenza e le sue mille sfaccettature. «Non mi mena più», dice la madre che, incredula ed emozionata, assiste alle sue trasformazioni.

L’obiettivo principale della terapia era indubbiamente quello di aiutarlo a capire che aveva le capacità necessarie a controllare i suoi impulsi, ma il fine principale dell’incontro umano era quello di aiutarlo a vedere oltre l’apparenza le

risorse che il suo ambiente non era in grado di rispecchiargli. Potenzialità mai esplicitate perché erano inafferrabili per i suoi stessi genitori che però erano riusciti, attraverso un’attenzione partecipe, a fargli sentire il diritto di esistere a modo suo. In questo caso cioè i genitori non avevano gli strumenti per poterlo capire, ma avevano il potenziale affettivo sufficiente a chiedere aiuto all’esterno. Potrei descrivere il suo percorso terapeutico come un processo non tanto di civilizzazione, come purtroppo siamo spesso portati a pensare con il pregiudizio di doverlo portare dove gli schemi ci indicano, ma di acculturazione e questo ha reso possibile una dignitosa maturazione. Nessun test avrebbe potuto evidenziare la sua sensibilità estetica e il desiderio di emergere dalla condizione in cui era costretto ad aggredire per farsi ascoltare ed essere riconosciuto diverso.

Piermario invece ha iscritto nel suo sintomo, un’insidiosissima balbuzie, il conflitto dei suoi genitori. Incapaci di far fronte alle proprie difficoltà i genitori hanno affidato al figlio la possibilità di tenere unito il loro matrimonio occupandosi di un problema che li affligge ma non mette in discussione i loro valori. La letteralizzazione di un problema nasconde a tutti i partecipanti quelle potenzialità che appaiono evidentemente troppo insidiose per essere accettate. Antipatico, supponente e impossibilitato all’ascolto dell’altro Piermario passa il suo tempo a impedire di essere accettato per tenere in vita un problema invece di altri. La sua balbuzie rende impossibile l’ascolto e a volte sembra che lui si compiaccia a occupare tutto il tempo per non dire. Una fragilità dietro la quale si nasconde una straordinaria potenza. Un’esistenza all’insegna dell’esclusione e della presa in giro che continua ad attivare la sua ostilità nei confronti del mondo. Vuole essere riconosciuto per la sua forza e tutti invece gli restituiscono un pietoso sentimento di comprensione per le sue difficoltà, o un ostinato rifiuto. E poi ecco che dallo scontro partecipe con me e con altri ragazzi del gruppo in cui lo seguo nasce la sua vera natura, ed è davvero emozionante scoprire la sua gratitudine e la capacità di entrare in empatia con gli altri. Ma i genitori faticano a riconoscere i cambiamenti e inconsapevolmente lo riportano ogni volta nei suoi problemi mostrando una preoccupazione per un sintomo di cui non possono accettare la remissione. I genitori di Piermario non difettano di strumenti culturali come quelli di Daniele; sono incapaci di distinguere tra i loro problemi e quelli del figlio. Rimane cioè nascosta nella visione del figlio quella parte che è nascosta a loro stessi e che li depriva della possibilità di immaginare strade diverse. Purtroppo a volte le risorse negate dai genitori possono rimanere nascoste anche agli occhi degli altri adulti di riferimento, come era accaduto in entrambe le storie cui ho fatto riferimento. Il bambino infatti non ha altri strumenti, oltre alla protesta per attestare le sue posizioni e una protesta interpretata a senso unico o approcciata superficialmente può essere interpretata a volte come la conferma dei problemi segnalati dai genitori.

Ci sono poi gli aspetti che rimangono nascosti perché i genitori si rifiutano più o meno consapevolmente di vedere. Aspetti dolorosi che costringerebbero al confronto con un fallimento del figlio e quindi anche loro. Bambini e ragazzi che non sono sufficientemente contenuti e i cui comportamenti vengono sempre interpretati positivamente fin quando il ragazzo è costretto ad agire pericolosamente il proprio bisogno di essere fermato. Tanti fatti di cronaca presentati come crisi improvvise sono spesso il risultato di tentativi ripetuti di trovare un limite esterno alla propria rabbia e al proprio bisogno di distruzione.

Eight friends have crossed hands

 

POTENZIALITÀ NASCOSTE AGLI OPERATORI

La categoria degli operatori è piuttosto ampia e sono necessarie alcune precisazioni. Le capacità nascoste agli insegnanti sono quelle che non corrispondono allo stile didattico e che fanno apparire il bambino come non adattato al contesto scolastico. Bambini che non socializzano sempre, che non condividono i giochi degli altri o che si avvicinano agli apprendimenti con modalità diverse.

Le potenzialità nascoste agli specialisti dell’infanzia possono spesso riguardare le risorse del bambino, quelle che non possono essere descritte da quadri diagnostici o da osservazioni ossessionate dalla ricerca di ogni comportamento disadattato. Esiste attualmente una forte tendenza a diagnosticare ogni comportamento senza considerazione alcuna dei momenti fisiologici di crisi e senza nessuna forma di tolleranza intellettuale per le variazioni individuali. Tra le diagnosi più in auge vanno senz’altro annoverate la dislessia (in un’epoca definita a mediazione visiva), i ritardi evolutivi del linguaggio (nella civiltà della comunicazione) l’iperattività (nello scenario che dovrebbe privilegiare gli strumenti del bambino tra cui il movimento) l’anoressia e i disturbi alimentari in generale(in un momento storico in cui il corpo immagine ha il sopravvento su altri valori) e la depressione. Patologie per le quali viene spesso proposto un farmaco che metta a tacere l’eccesso di richiesta e di energia. L’approccio sintomatico a questi problemi continua a tenere nascoste le vere richieste e la patologia finisce con il descrivere il bambino, anziché essere il tramite per arrivare ai suoi reali bisogni. Questa considerazione è estremamente importante perché indicazioni sbagliate nell’età evolutiva possono condizionare il corso di un’intera esistenza. La rincorsa agli obiettivi a lungo termine spesso mette in secondo piano il raggiungimento di obiettivi minimi più vicini alle possibilità del bambino, che sono gli unici che gli permetterebbero un lento e graduale sviluppo. Il riconoscimento dei tempi di sviluppo rischia di essere disconosciuto a favore di prodotti da consumare presto e subito. Parlo ovviamente di spinte collettive, e non del lavoro di tanti singoli operatori che faticano a farsi ascoltare ogni volta che propongono un approccio più attento alle esigenze del bambino. Il problema è che spesso, in

questo clima di risposte immediate, chi si propone con cautela rischia di essere considerato non all’altezza della situazione. È compito di noi operatori, che siamo qui a interrogarci sul destino dei nostri figli, non rinunciare a questa impresa, anche se a volte è veramente difficile. Esiste infatti una sorta di arroganza collettiva che depaupera il singolo specialista dei poteri necessari a proporre nuove visioni del problema.

Sempre più spesso incontro genitori od operatori di altri settori che contestano le diagnosi proposte perché non corrispondono alle indicazioni scaricate da internet o alle informazioni apprese in trasmissioni televisive che a volte, devo proprio dirlo nonostante il mio continuo esercizio alla tolleranza, sono spesso sconcertanti. Informazioni di pronto consumo che continuano a eclissare i veri problemi e rendono l’infanzia un pianeta sempre più distante, anche se messo a fuoco da apparecchiature sofisticate.

Dall’esperienza che ho potuto fare per oltre dieci anni in un centro che si occupa di abusi all’infanzia ho tratto la conclusione che a volte i giudici riescono a immaginare più degli educatori e dei terapeuti, soluzioni vicine ai bisogni del bambino. Ho visto bambini salvati da sentenze ritenute impopolari anche da psicologi. Un principio di autorità può aiutare il bambino a entrare in contatto con le sua capacità, nonostante i dirompenti sensi di colpa nei confronti dei genitori e un allontanamento dall’ambiente familiare, duraturo o momentaneo, può essere a volte l’unica opportunità da offrire al bambino perché la terapia non è in grado di risolvere tutti i problemi. Dobbiamo abbandonare l’ingenua fantasia che tutto sia riparabile e imparare a immaginare situazioni intermedie che aiutino dignitosamente gli individui a far fronte ai propri problemi. (Concetto di resilienza come aspetto estremamente positivo, se non si cade nella fantasia onnipotente che rischierebbe di farci negare il male più atroce nella convinzione che il bambino sarà in grado di tornare al suo stato originario.) La fantasia ripartiva a oltranza può creare molti più danni di quelli che pensa di risolvere. Sostenere e accompagnare sono i valori tenuti troppo spesso in secondo piano anche in ambito psicologico.

Si è parlato tanto di educazione a misura di bambino ma ora sempre di più si parla di educazione dell’adulto e molto dovremmo ancora lavorare per imparare a esercitare la tolleranza contro l’allarmismo e la capacità di dubitare contro l’ossessivo bisogno di chiarezza.

 

http://issuu.com/babele/docs/babele_13/1?e=1077510/2725472

Share Button