In questo intervento vorrei porre la mia attenzione soprattutto sulla natura relazionale del fenomeno «bullismo», per comprenderne il senso psichico più profondo sia in riferimento ai reali rapporti tra coetanei sia in relazione alla dinamica interna che abita tanto la vittima quanto l’aggressore.
Come è stato ormai sottolineato da più parti, per comprendere il fenomeno del «bullismo» bisogna prendere in considerazione il bullo, la vittima e lo spettatore quali personaggi che concorrono, attraverso modalità differenti ma a volte complementari, alla messa in atto del comportamento aggressivo.
Il bullo manifesta la propria aggressività in modo diretto (attraverso comportamenti fisici o atti verbali) o in modo indiretto (attraverso comportamenti di denigrazione o esclusione) e svolge per lo più le proprie azioni nell’ ambiente scolastico scegliendo spesso come vittima predestinata un compagno di classe. Generalmente si differenzia il bullo dominante – con le sue caratteristiche di aggressività, forza, opposizione alle regole che ne fanno un progettatore ed esecutore di atti di violenza – dal bullo gregario che assume per lo più la funzione di «sobillatore» e che si pone come seguace del primo. Ne condivide cioè gli obiettivi, ma non è in grado di prendere iniziative violente né è capace di portare avanti un’azione da solo.
La vittima viene invece identificata come passiva-sottomessa o provocatrice. Nel primo caso si tratta del classico bambino un po’ isolato dal contesto classe, che non è in grado di reagire in nessun modo all’ attacco del bullo e che arriva a colpevolizzarsi del proprio comportamento senza riuscire a parlarne per il timore che la violenza aumenti. Nel secondo caso si tratta del bambino che in qualche modo provoca gli attacchi degli altri e qualche volta prova a reagire con gesti aggressivi che non riescono però mai ad avere la meglio su quelli del bullo.
Nella categoria dello spettatore troviamo invece i sostenitori del bullo (coloro cioè che assistono alla violenza ridendo o anche solo guardando), i difensori della vittima (che tentano di interrompere l’atto o che comunque tentano di consolare la vittima) e la cosiddetta «maggioranza silenziosa» che tenta di rimanere fuori dalla situazione non prendendo posizione in alcun modo.
Prima di addentrarmi in riflessioni che riguardano la dinamica psichica, vorrei chiarire un aspetto che spesso divide l’opinione pubblica e cioè il fatto che l’episodio di bullismo di cui ci stiamo occupando va differenziato dai comportamenti goliardici, da sempre presenti in età adolescenziale.
Per quanto riguarda infatti il fenomeno dell’attacco a un esponente del gruppo vissuto realmente o emotivamente come più debole possiamo dire che si tratta di un qualcosa di universale che ha a che fare con il bisogno del gruppo di ridefinire di tanto in tanto la propria forza e supremazia. L’alleanza necessaria per sferrare un attacco all’esterno ha infatti lo scopo di far sperimentare ai vari rappresentanti del gruppo il senso di appartenenza e di coesione. Il fatto che l’attacco venga perpetrato nei confronti delle persone più deboli è funzionale a definire un senso di identità e di differenziazione da ciò che viene avvertito come estraneo. I ragazzi sentono la necessità di ribadire la propria identità con azioni considerate trasgressive dal mondo degli adulti, e per questo si lanciano in «bravate». È ovvio che in ogni epoca questi fenomeni hanno assunto connotazioni diverse sia in riferimento all’ambiente socio-culturale sia in relazione alla tipologia dei vari rappresentanti del gruppo. Ciò che è certamente cambiato oggi, e che connota l’atto di bullismo, è la modalità attraverso la quale viene espressa l’aggressività. I rapporti che attualmente uniscono gli adolescenti sono infatti caratterizzati da una maggiore distanza emotiva e questo rende più efferata l’aggressione nei confronti soprattutto dei deboli, perché non ci sono quei vincoli affettivi che consentono di moderare la propria istintualità. Più che a «bravate», quindi, oggi assistiamo a veri e propri atti anti-sociali, nei quali sembra che i ragazzi abbiano perso il senso di responsabilità. Dalle ricerche campionarie svolte da Telefono Azzurro ed Eurispes su una popolazione di ragazzi dai 12 ai 18 anni emerge che un terzo degli intervistati ha partecipato in qualche modo a fenomeni di bullismo e che il 17% ha avuto una parte attiva in azioni di minaccia o violenza. Questi dati confermano l’entità del fenomeno e fanno protendere per una spiegazione più complessa, che va oltre la manifestazione di una normale prova di forza adolescenziale.
Ed è proprio su questo aspetto che vorrei interrogarmi per riflettere sul senso che oggi assume l’aggressività dei ragazzi, sia nei confronti di se stessi sia verso il gruppo dei pari. Mettendo a confronto la tipologia del bullo con quella della vittima, alcuni autori hanno sottolineato il fatto che il bullo, a differenza della vittima, non soffre di insicurezza e di bassa autostima e che ha piuttosto bisogno di dominare sugli altri senza provare la minima empatia. Se sul piano descrittivo questa constatazione del comportamento appare corretta, credo che a livello intrapsichico la dinamica sia più complessa e che tutti i partecipanti al fenomeno condividano in fondo lo stesso nucleo complessuale.
Vorrei innanzitutto distinguere, con Guggenbühl-Craig, un tipo di violenza in presenza di Eros, da un tipo di violenza che si svolge invece in assenza di Eros perché ritengo che proprio questa distinzione ci aiuti a cogliere la differenza tra la classica bravata e il fenomeno del bullismo. La violenza in presenza di Eros è, infatti, quella che consente di mettere l’aggressività al servizio di comportamenti adeguati socialmente ed eticamente e che favorisce empatia nella misura in cui mette a confronto delle forze che possono essere considerate paritetiche. Uno scontro di tipo adolescenziale favorisce in realtà un incontro a un livello più profondo nella misura in cui permette il riconoscimento dell’altro come superiore o inferiore in quel determinato ambito senza che si metta in atto un rifiuto radicale né una totale idealizzazione. La violenza in assenza di Eros, invece, si concretizza in atti distruttivi che si alimentano di se stessi perché lo scopo perseguito è univoco, non toccato da quell’ambivalenza che permette di rimanere in contatto anche con la parte amorevole di se stesso. La violenza in presenza di Eros è, dunque, quella che un individuo può esercitare per difendersi o proteggere un altro da una sopraffazione o che è funzionale al riconoscimento di un diritto o di un dovere (come molte delle azioni educative che gli adulti devono esercitare nei confronti dei bambini) mentre la violenza in assenza di eros è quella che persegue solo i suoi scopi senza porsi degli obiettivi sociali educativi o relazionali, una violenza cioè che viene esercitata sull’altro in quanto oggetto e non in quanto individuo.
Nella relazione bullo-vittima manca innanzi tutto la simmetria del rapporto per cui entrambi i partecipanti condividono quell’area che oscilla senza soluzione di continuità tra impotenza e onnipotenza come se non ci fosse mai la possibilità di immaginare una trasformazione delle forze psichiche messe in campo. Una sorta di scissione che attribuisce a uno dei componenti del rapporto tutta la polarità opposta a quella dell’altro e che depriva entrambi del senso di umiltà che aiuterebbe l’uno a chiedere aiuto e l’altro a porgerlo. Una scissione in cui sembra convivere anche quella maggioranza silenziosa che non trova la forza di sollecitare cambiamenti, come se quell’azione fosse una necessità ineludibile, una sorta di iniziazione a un mondo anestetizzato che non sembra accorgersi di nulla. Ragazzi che si trovano in campi di battaglia dove gli adulti non sembrano avere accesso per l’incapacità a contenere un’aggressività agita, forse perché non sufficientemente elaborata, o a contrapporsi con una violenza che sia piena di Eros per porre limiti e confini al servizio di una convivenza sociale. È in questo senso che anche il bullo può essere considerato, a livello profondo, un insicuro, un individuo incapace di far fronte all’inadeguatezza al punto da rimuoverla completamente a favore di una prepotenza che persegue solo il fine della supremazia sull’altro.
Questa considerazione mi sembra particolarmente importante per le implicazioni che ha sul piano educativo e terapeutico e per la possibilità di continuare a immaginare nuovi percorsi almeno da parte degli adulti. Considerare il bullo solo come un individuo incapace di sintonizzarsi con le emozioni dell’altro e proteso solo alla supremazia, significa continuare a rimanere in quell’ottica di scissione che determina appunto il fenomeno nella sua complessità e che non consente di trovare soluzioni più radicali al problema. Né appare proficuo considerare la vittima solo come un individuo incapace, insicuro e ansioso perché questo significherebbe ignorare, da una parte, l’aggressività repressa di cui è portatrice e, dall’altra, la dimensione di onnipotenza presente nell’atto di non chiedere aiuto. Ma tutto ciò può significare anche, a mio avviso, deresponsabilizzare gli adulti dal loro ruolo educativo e contenitivo. I dati rilevanti emersi nelle ricerche ci impongono una riflessione che non spinga verso atteggiamenti di tipo costituzionalistico, ma che chiami in causa l’ambiente ristretto della famiglia e quello più allargato della società. Dovremmo forse interrogarci sui modelli che, in quanto adulti, proponiamo ai nostri ragazzi e comprendere in che modo spingiamo verso comportamenti anestetizzati che ignorano la presenza di emozioni e affetti. Per la prima volta, per esempio, nella storia dell’umanità lo sviluppo della tecnica non è gestito dai padri ma dai figli e questo crea una mancanza di contenimento per i ragazzi. Lo sviluppo incessante dei mezzi di comunicazione aumenta sempre più il dislivello e spesso gli adulti non sanno porsi come modelli né, tantomeno, come argini. Nell’avventurarsi verso nuovi territori i ragazzi sono soli e non sono in grado di gestire le proprie emozioni al cospetto di strumenti che si propongono come seducenti ed eccitanti. Diventare registi delle proprie azioni, invadere la privacy dell’altro, sconfiggere virtualmente il nemico con azioni aggressive, essere costantemente in relazione con più persone senza un confronto diretto sono tutte operazioni funzionali a garantire la propria supremazia senza sforzo e responsabilità. Senza sottolineare il concetto ormai chiaro della pericolosità di non saper adeguatamente distinguere il mondo reale da quello virtuale. Credo che i genitori e, per quel che possono gli insegnanti, dovrebbero porre seri limiti all’uso sconsiderato di comunicazioni virtuali per aiutare i ragazzi a crescere emotivamente, oltre che cognitivamente. L’uso, per esempio, di videogiochi che portano i ragazzi a imitare comportamenti violenti dovrebbe essere impedito nell’infanzia e permesso limitatamente nell’adolescenza. Nella pratica clinica incontro spesso ragazzi che cadono preda di vere e proprie crisi di rabbia incontenibile dopo avere giocato per ore con lo stesso videogioco in cui bisogna ammazzare un numero sconsiderato di persone per passare al livello successivo. Credo che il dato si commenti da solo. L’incremento della comunicazione a distanza ha sicuramente ridotto la possibilità di incontri più intimi che richiedono necessariamente vicinanza. La contraddizione è quindi solo apparente, perché la facilitazione caratterizzata da incontri virtuali in cui si può non essere se stessi protegge da quei sentimenti di inadeguatezza o vergogna che si possono sperimentare in un incontro reale. L’idea di poter raggiungere chiunque e in qualsiasi momento alimenta il senso di onnipotenza di cui i ragazzi sono portatori e impedisce il sano confronto con il limite. I ragazzi che vivono una parte considerevole del loro tempo in una realtà virtuale non sperimentano la possibilità di sopportare la frustrazione e rischiano di rispondere con la violenza ogni volta che non riescono a soddisfare immediatamente una loro esigenza. L’incapacità di tollerare la frustrazione credo che sia la principale carenza dei nostri ragazzi e la responsabile di molte storie di disagio psichico e di devianza. L’insicurezza, la vergogna, il pudore e la preoccupazione sono sentimenti indispensabili per venire a patti con se stessi e con la vita, ma sembra che oggi anche gli adulti abbiano paura di farli sperimentare ai propri figli in nome di un presunto ideale di felicità.
Innanzitutto ritengo che servirebbe una maggiore solidarietà tra adulti, per indicare linee educative che siano coerenti. Troppo spesso genitori e insegnanti si trovano in posizione di contrasto, sovrapponendosi confusamente nei ruoli e lasciando spazio alle pretese o alle proteste dei ragazzi che trovano facili scappatoie a molte delle loro azioni. Mi riferisco in particolare al fatto che quando gli insegnanti assumono una posizione forte nei confronti di azioni violente vengono spesso accusati dai genitori quali persecutori del ragazzo. L’educazione del comportamento inizia molto presto, perché i bambini hanno bisogno di essere protetti dalla loro stessa aggressività. Permettere a un bambino, come purtroppo accade sempre più spesso, di reagire con violenza non penalizzandolo ma anzi incoraggiandolo per la sua forza significa non aiutarlo a capire che la comunicazione passa attraverso comportamenti più evoluti come il linguaggio verbale. Non è un caso che i disturbi del linguaggio siano in continuo aumento, proprio in una società che sembra aver fatto della comunicazione il suo obiettivo supremo. L’apprendimento alla comunicazione deve partire dalle prime relazioni affettive e deve poter proseguire lungo tutto l’arco dello sviluppo. La comunicazione necessita di pause, si accresce attraverso le possibili incomprensioni e trova il suo massimo dispiegamento in un contesto che abbia una buona significatività emotiva. Non è possibile raggiungere un’adeguata maturazione se non ci si confronta con i limiti imposti dalla presenza dell’altro e questa è la principale funzione educativa degli adulti.
Quando ci troviamo al cospetto di comportamenti fortemente aggressivi come quelli descritti in questi ultimi tempi dalla cronaca possiamo sicuramente affermare che ci troviamo all’apice di una linea di condotta preesistente. A parte casi eccezionali in cui ci può essere una reazione improvvisa ed eccessiva, il ragazzo che arriva a un gesto violento ha già sperimentato profondi sentimenti di inadeguatezza e ha sicuramente mostrato dei segnali che sono stati disattesi dall’ambiente. Questi segnali possono essere di varia natura, ma sono quasi sempre riconoscibili a un occhio attento. Come è stato evidenziato in storie diventate di dominio pubblico, alcuni di questi ragazzi presentavano un’esagerata timidezza e una forte chiusura nei confronti dei coetanei, mentre altri avevano presentato fin dai primi anni di scuola un comportamento aggressivo. Nel primo caso si tratta di ragazzi che non riescono a confrontarsi con i coetanei utilizzando la giusta dose di aggressività per rispondere alla critica o all’insensibilità e quindi si uniscono a una banda «forte» per trovare un’identità e riscattare il senso di insopportabile impotenza. Nel secondo caso si tratta invece di ragazzi che non sono stati adeguatamente contenuti a tempo debito e che hanno fatto della violenza la strategia comunicativa per eccellenza. È chiaro che in entrambi i casi sarebbe necessario un intervento dell’adulto prima che il comportamento si esasperi oltre i limiti sopportabili dal ragazzo.
Di fronte a un comportamento violento sono necessarie fondamentalmente una buona dose di empatia per il disagio sottostante l’atto e un adeguato senso di responsabilizzazione per le conseguenze del comportamento violento. Questi atteggiamenti sono entrambi necessari per comunicare al ragazzo la gravità dell’atto senza condannarlo irrimediabilmente. Mi sembra che un problema oggi molto frequente tra gli adolescenti e tra i bambini sia un’eccessiva inconsapevolezza del proprio operato in nome di una comprensione a oltranza da parte degli adulti. Per contenere realmente un ragazzo è necessario essere vicino alla sua emozione in modo da stimolarlo a un’elaborazione e a una possibile riparazione del danno. Perdonarlo o condannarlo troppo in fretta significa invitarlo a rimuovere i sentimenti penosi che si nascondono dietro il suo comportamento deprivandolo di una possibile trasformazione.
Sono quindi necessari interventi mirati nella scuola per consentire ai ragazzi un’elaborazione dei propri vissuti proprio nel luogo dove si perpetrano le loro azioni negative. Un’esperienza che stiamo conducendo da due anni in una scuola media alla periferia di Roma ci ha fatto comprendere quanto, al di là di possibili aspettative, i ragazzi siano pronti a chiedere aiuto. Il nostro progetto iniziale riguardava soprattutto interventi in aula e un coinvolgimento degli insegnanti con l’idea che i ragazzi di quell’età non avrebbero usufruito dello sportello d’ascolto. Abbiamo invece dovuto potenziare il nostro intervento con i ragazzi, che sono stati i primi a usufruire di uno spazio psicologico, aiutando anche gli adulti ad avere fiducia in un ascolto più attento che potesse andare oltre le prestazioni e gli obiettivi frenetici di un apprendimento senz’anima.