Studio Arcobaleno

IL GIOCO SIMBOLICO IN ETA’ EVOLUTIVA: RISULTATI DI UNA RICERCA

(DIRE – Notiziario Sanità) Roma, 9 apr. – Il gioco non conosce differenze di genere ma di età. Nell’elaborare e organizzare un gioco simbolico, 6 bambini su 10 (60%) della scuola dell’infanzia registrano infatti punteggi molto più bassi rispetto a quelli della scuola primaria di primo e secondo ciclo. Inoltre, solo il 20% dei minori dell’asilo si sentono a loro agio davanti a un gioco assegnato. Una percentuale che però aumenta con l’avanzare dell’età. Lo rivela un’indagine realizzata dall’Università di Perugia e Padova su un campione di 1.211 bambini normodotati (587 maschi e 624 femmine), dai 4 agli 11 anni, di 25 scuole del Centro e Nord Italia.

La ricerca è stata presentata oggi a Roma nell’ambito delle due giornate di training sull’Affect in play scale (Aps), che si concludono domani, promosse dalla Scuola di specializzazione in Psicoterapia dell’età evolutiva a indirizzo psicodinamico dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), presso l’Aula Magna dell’Istituto comprensivo Regina Elena. Le autrici sono Adriana Lis, Claudia Mazzeschi, Silvia Salcuni, Daniela Da Riso, Daphne Chessa.

IL GIOCO SIMBOLICO – A 18 mesi avviene il passaggio dal gioco esplorativo-funzionale al gioco simbolico, ovvero la banana diventa un telefono e la penna un astronave. A questa età il piccolo inizia ad assumere un ruolo più attivo, quale attore del gioco, che gli consente anche di elaborare angosce e sogni.

L’accompagnamento del rumore, il suono onomatopeico, indica l’accesso alla capacità della simbolizzazione e “nell’autismo questo è un segnale fondamentale- afferma Magda Di Renzo, responsabile del servizio terapie dell’IdO- nelle patologie importanti anche il più piccolo gesto apre un mondo e segna il passaggio da una condizione a un’altra”.

Il gioco diventa quindi una finestra dalla quale “osservare lo sviluppo cognitivo e affettivo del bambino- spiega Daphne Chessa, docente di Psicodiagnostica al corso di laurea di Psicologia della personalità e delle relazioni familiari dell’Università degli Studi di Padova- stimola la sua creatività esercitando una funzione adattiva e assumendo diverse forme e differenti significati: in Italia, ad esempio, è utilizzato come strumento di piacere, mentre negli Stati Uniti è un mediatore dell’apprendimento”.

 

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Il bambino gioca “perché gli piace, non esiste nessun proposito esterno- sottolinea la docente- e quest’attività diviene una sorta di ponte tra il suo mondo interno e l’ambiente circostante. Partendo da qui possiamo osservare le sue capacità di coping, di apprendimento e di lettura della realtà”.

I giochi di regole partono invece alla fine dell’infanzia, dai 7 anni in poi. “Da qui si capisce com’è l’interazione con i pari, il senso del limite e le competenze cognitivo sociali”. ATTENZIONE AI GENITORI – Gli adulti “devono mettere i bambini nella condizione di giocare e di esprimere la loro creatività- prosegue la docente- adesso si presta poca attenzione alla dimensione del gioco, dando a bambini troppo piccoli strumenti digitali quali gli Ipad, o ancora tanti giochi contemporaneamente che finiscono solo per iperstimolare i piccoli”.

PRECONDIZIONI – “Quando si osserva un bambino giocare occorre capire se le funzioni di base siano o meno sviluppate. Il gioco non riguarda solo le rappresentazioni mentali- chiarisce l’esponente dell’Università di Padova- va allargato anche all’aspetto emotivo, motivazionale, agli affetti e alle circostanze interpersonali”. Il gioco simbolico è indice “della capacità di esprimere gli affetti ma da solo non è promotore di sviluppo cognitivo- afferma la dottoressa- anche se lo può promuovere aiutando il minore a sviluppare il pensiero astratto. Il gioco accresce il vocabolario, le capacità espressive, l’abilità di pensiero divergente, la comprensione e l’espressione delle emozioni, può inoltre ridurre le paure e le angosce, incentivare le capacità di problem solving, l’interazione sociale e i ruoli che il bambino avrà all’interno del gruppo dei pari”.

PROBLEMATICHE NELLA RICERCA – “Manca una definizione univoca del gioco quale strumento di valutazione, empiricamente valido e basato su norme di riferimento- fa sapere Chessa- a noi interessano i meccanismi che intervengono all’interno del gioco anche per valutare l’efficacia di un trattamento”. Le ricerche che hanno preceduto il lavoro di Sandra Russ, docente della Case Western Reserve University (Cleveland – Ohio) e autrice dell’Aps, erano tutte focalizzate sulla prima infanzia “come se dai 6 anni in poi il bambino non giocasse più- rimarca la psicologa- inoltre, viene considerata solo l’interazione, mentre noi vogliamo capire come il bambino gioca da solo e vederlo nella sua complessità”. Ultimo punto: “Gli strumenti/giochi devono essere diversificati in base all’età”.

METODO AFFECT IN PLAY SCALE (APS)- ‘L’Aps è un metodo fortemente innovativo rispetto a quelli finora impiegati- aggiunge Chessa- perché è appunto una finestra di lettura dello sviluppo che propone la valutazione del gioco come competenza complessa. Russ adopera un materiale e un setting definiti, con protocolli di somministrazione e di scoring standardizzati”. Il modello di valutazione del gioco simbolico è rivolto a bambini in età scolare (dai 6 ai 10 anni) e prescolare (4-5 anni).

Nel realizzare questo metodo la docente americana affronta tutte le problematiche irrisolte per “guardare in modo non disgiunto il processo creativo messo in atto dal bambino. Gli aspetti di personalità collegati alla creatività del minore sono identificati da un punto di vista cognitivo, affettivo, interpersonale e di problem solving”.

COME FUNZIONA IL METODO – “È un percorso di gioco in cui vengono utilizzate per i bambini dai 6 ai 10 anni due marionette e alcuni cubetti. Con questo materiale viene chiesto al piccolo di giocare per 5 minuti. Il gioco è libero- sottolinea la docente- mentre il materiale e la consegna sono standardizzati. Per i bambini di età prescolare invece viene cambiato il materiale di gioco, fornendo un set di giocattoli più ampio, formato da animali di plastica, pelouche, tazzine, macchinine e palla. La consegna è più interattiva e i 5 minuti restano liberi. Tutto il materiale di gioco viene poi analizzato nell’espressioni affettive e nelle variabili cognitive”. VALUTAZIONE – Il gioco viene videoregistrato, poi analizzato e valutato. Si esaminano nel bambino sia le tematiche affettive che il minore mette in atto durante il racconto, utilizzate all’interno di un range di 11 categorie tra cui l’ansia, la frustrazione, la sessualità, la tristezza, l’affettività-cura e la felicità, che quattro categorie cognitive: capacità di organizzazione (l’abilità del minore di creare una narrazione utilizzando i criteri canonici di una favola); elaborazione (capacità di personalizzare la storia, cambiando ad esempio il tono della voce in base ai diversi personaggi); immaginazione (utilizzo del gioco simbolico e il numero di trasformazioni che apporta nella storia); confort (quanto si è trovato a suo agio nel gioco). Per i bambini in età prescolare viene valutato anche il gioco funzionale e i suoni onomatopeici.

DIFFERENZE DI GENERE SUL TEMA ‘AFFETTIVITÀ’ – È il tema dell’affettività a registrare una maggiore differenza di genere su temi specifici: “Nel gioco i maschi si orientano di più sulle tematiche dell’aggressività, mentre le femmine trattano argomenti di ‘affetto-cura’ e oralità (relative al mangiare a ai cibi). Queste ultime riescono, in sostanza – chiarisce Chessa- ad esprimere più i temi della felicità, raccontando storie con contenuti più legati ad attività piacevoli. Gli uomini sono invece più vicini ai temi della lotta e delle uccisioni”. I temi legate all’affettività in generale però aumentano con l’età: “Sono 8 i temi affettivi utilizzati dai piccoli della scuola dell’infanzia, mentre 15 in quelli della scuola primaria di primo e secondo ciclo”.

 

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GIOCO NELLA PRATICA CLINICA – “L’uso dell’oggetto di gioco in maniera disfunzionale è utile soprattutto per lavorare con quei bambini con difficoltà/disabilità che magari rifiutano tale oggetto. Il gioco diviene per noi clinici- continua Chessa- uno strumento per valutare l’andamento di una terapia, utilizzandolo come una griglia di lettura complessa delle variabili affettive ed emotive”. Nel campione di bambini analizzati, “il 6% non è riuscito a superare la prova, non avendo giocato per più di due minuti e mezzo. Questo probabilmente perché non erano stimolati o frustrati- osserva la psicologa- può dipendere anche dal tipo di giocattoli proposti. Negli Stati Uniti le marionette spopolano, ma in Italia non sono molto frequenti- conclude Chessa- e i bambini che non le conoscono possono maturare un aspetto di frustrazione culturale”.

http://www.direnews.it/newsletter_sanita/anno/2014/aprile/09/?news=03

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